L’altro giorno camminando per un vicolo al mare, vedo una brochure di una conferenza che si sarebbe tenuta nei giorni a seguire. Il relatore è un saggista, Igor Sibaldi, e si parla di felicità. Penso che l’argomento sia molto affascinante e che, in fondo, non ne sappiamo mai abbastanza di felicità, così decido di andare.
Felicità o contentezza? Che differenza c’è?
C’è che essere felici comporta alcune scelte e queste scelte sono spesso dettate da un ascolto profondo interiore che va (spesso) a scapito del “noi sociale” ovvero dell’essere un “io” inserito nella società, limitato da uno Stato, avvolto da leggi e doveri. Invece la contentezza ha più a che fare con i “bisogna”, con i “si deve” e con il concetto darwiniano di adattamento (“adattati o muori”, messa giù così chi non si adatterebbe?!)
Etimologicamente, “contentezza” ha a che fare con contenimento, con contenersi quindi con il rimanere dentro i limiti; ciascuno i propri, quelli dettati dal proprio mondo esterno (famiglia, società e via dicendo).
Felicità, invece, dall’inglese significa happiness! Questo ha a che fare con il verbo “to happen” che letteralmente “succedere/accadere”… Esattamente.
Forse che concedersi la “pursuit of happiness”, come citato nella Costituzione Americana, non significhi altro che “lasciar accadere?” ovvero “lasciare che le cose possano succedere?”
E come si può fare?
Dismettendo i panni della contentezza, dell’essere contenuti all’interno di vite, professioni, relazioni che non portano la nostra firma e partendo invece verso nuovi destini, progettando e definendo noi in prima persona i contorni della nostra vita.
Torno a casa maturando nuove riflessioni e pensando che in fondo tutto parte dall’ascolto.
Se ci esercitiamo ad ascoltarci sarà più facile comprendere quali strade vogliamo intraprendere o tracciare da zero (sì certo, perché tu puoi volere!) e per fare questo, aggiungo io, non è mai troppo tardi.